La Serie A tra consumismo, rinnovamento e deliri estetici

I club italiani stanno cercando di colmare il gap finanziario con gli altri campionati nel peggior modo possibile

Joao Felix in maglia Milan

Domenica scorsa, guardando Milan-Lazio davanti alla TV, abbiamo tutti avvertito una sensazione di spaesamento di fronte alla divisa dei padroni di casa: la quinta differente nelle ultime sei partite dei rossoneri. Rossoneri, ormai, per modo di dire, perché le logiche di un marketing stile NBA hanno evidentemente surclassato il simbolismo storico del club, conservando soltanto qualche debole richiamo. Ma il discorso è più ampio.

L’abuso delle maglie away (indossate arbitrariamente anche nelle partite casalinghe) è soltanto la punta dell’iceberg di una deriva consumistica concettualmente sbagliata che cerca di generare introiti in qualunque maniera. Anziché promuovere progetti di più lungo periodo per il rinnovamento di una lega che produce sempre più disaffezione, i club trattano i tifosi un po’ come clienti cui dare in pasto maglie, biglietti a prezzi folli, partite in altri continenti.

Le tradizioni sono a prezzo di vendita mentre le società conservano quella scarsa propensione a strutturarsi di cui parla Giovanni Armanini nella sua newsletter Fubolitix, ovvero ad assumere professionisti capaci di dare visione e sostanza alle strategie. Strategie come quelle suggerite da Lorenzo Coruzzi, Valuation Director di Brand Finance: investimenti nello sviluppo giovanile e nell’aggiornamento delle infrastrutture, per esempio, o l’adozione delle tecnologie più recenti.

Ma il successo commerciale dei club – e di una Lega – passa soprattutto dal mantenimento di un vivo interesse nei giovani (che influisce sul valore dei contratti televisivi) che non può prescindere da un corretto rafforzamento del brand. Da qui passa anche il ripopolamento degli stadi – la situazione non è più idilliaca come nel post-covid, persino San Siro è in calo, per non parlare dei settori ospiti, spesso desolati.

Leggi anche

Loading...