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La Serie A è di nuovo competitiva, ma il merito non è del Sistema

Dove non arrivano le risorse, arrivano le idee: così il campionato italiano è tornato grande agli occhi dell’Europa.

Non è una questione di sistema, ma di interpreti: da quella tragica notte al Renzo Barbera che scatenò il processo al calcio italiano – dall’obsolescenza delle strutture all’inadeguatezza dei settori giovanili – è già cambiato tanto. E il merito va riconosciuto ai singoli club, a dirigenti e allenatori che, senza particolare supporto economico dalle Istituzioni o dalla commercializzazione del prodotto televisivo, si sono rimboccati le maniche per donare nuovamente alla Serie A competitività interna e prestigio a livello europeo.

Per cominciare, quattro squadre diverse si sono laureate Campioni d’Italia nelle ultime cinque stagioni – una variabilità gradita (dopo i nove anni di dominio bianconero) che alimenta progetti ambiziosi allargando il campo delle pretendenti al titolo. E nonostante, sulla carta, Inter e Napoli abbiano vinto con ampio margine i rispettivi Scudetti, la vicenda partenopea dimostra che l’emergere di realtà sempre più attrezzate come, ad esempio, Fiorentina e Bologna, richieda una certa progettualità per non perdere il treno (sempre più lungo) che conduce in Europa.

Europa che accoglierà, nella competizione più prestigiosa appena rinnovata, cinque squadre italiane, tra cui la più bella sorpresa della stagione appena terminata: il Bologna costruito da Giovanni Sartori. Se quest’anno, in Champions League, il cammino delle italiane non è stato entusiasmante, l’impresa bergamasca di Dublino e la seconda finale di Conference League consecutiva per la Fiorentina ci hanno assicurato il maggiore Ranking UEFA 23/24 (e il secondo posto nella classifica generale alle spalle dell’Inghilterra).

Insomma, la Serie A in Europa fa sempre più paura – e il prossimo anno avrebbe potuto contare nove club tra tutte le competizioni se i Viola avessero battuto l’Olympiakos ad Atene (il Toro, così, dovrà rimandare la sua comparsa fuori confine). Segno di un campionato vitale in cui sono sempre meno le partite dall’esito scontato: basti pensare alla parabola discendente del Sassuolo, retrocesso dopo undici stagioni nonostante i 6 punti conquistati contro l’Inter capolista. Lo stesso Frosinone, per continuità di gioco espresso, non avrebbe meritato il campionato cadetto.

A proposito: le tre neopromosse bussano alle porte della Serie A forti della stabilità finanziaria garantita dalla famiglia americana Krause (per il Parma) e dal capitale anglo-indonesiano di SENT Entertainment (per il Como). Società che, come il Monza due anni fa e come il Genoa la scorsa stagione, arrivano non solo per restare, ma per costruire e ritagliarsi opportunità di crescita. E la terza, il Venezia, è anch’essa in mano a un gruppo di investitori americani che dal 2015 hanno portato gli arancioneroverdi dalla D alla A (due volte).

Che la Serie A stia tornando ai fasti di un tempo se n’è accorta anche Deloitte, che nell’ultimo report sulla stagione 22/23 ha parlato dell’influenza sismica che le prestazioni sul campo hanno determinato sui ricavi finanziari di Napoli (+80% degli introiti dai diritti televisivi), Milan (+30%) e Inter (+22%), oltre a incrementi “a doppia cifra” sulla percentuale dei biglietti venduti rispetto ai livelli prepandemici. Si tratta, però, di traguardi ancora isolati, capaci di generare un’immagine di facciata ma non di darle sostegno e stabilità.

Successi di club, dunque, non di quel Sistema che avrebbe il dovere di tutelarli o quantomeno di premiare le idee, la passione, il lavoro di piazze che ambiscono a un panorama europeo e nel frattempo festeggiano ognuna secondo personali usanze, identità, sapori. La differenza tanto sciorinata con la Premier League diventa sempre più economica: laddove una società inglese può cercare di colmare le lacune ricorrendo al mercato, l’Italia si affida alla mentalità dei propri allenatori e alla forza del collettivo.

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