Al Napoli di Garcia manca uno spartito
Analizziamo le criticità dell’avvio di stagione travagliato dei campioni d’Italia
Partita dopo partita, sembrano riconfermarsi le certezze e le lacune del Napoli di Rudi Garcia. Una squadra che si esalta negli spazi, ma che arranca affannosamente quando perde il possesso. Che non riesce ad attaccare efficacemente con tutti gli effettivi, risultando sterile quando ha di fronte retroguardie organizzate e troppo facilmente perforabile sul ribaltamento di fronte (il gol incassato su calcio d’angolo a favore contro l’Union Berlin ne è la fotografia perfetta). La sensazione è che i campioni d’Italia – a differenza della consapevolezza che il titolo dello scorso anno avrebbe dovuto consolidare – non riescano più ad essere padroni del campo: quando trovano il vantaggio sembrano assaliti dal pensiero di dover gestire a tutti i costi il risultato – anziché aggredire ulteriormente il match come erano abituati a fare – e finiscono per perdere il controllo della gara ritrovandosi passivamente in balia degli eventi. Si è passati da un’identità di gioco corale inconfondibile – fatta di possesso, ritmo alto e riaggressione immediata – a un affidamento pressoché totale ai guizzi dei singoli, che in più di un’occasione hanno risolto la partita contro avversari di seconda fascia, nascondendo la polvere sotto al tappeto.
Numeri e considerazioni di un inizio non all’altezza
Nelle prime 11 uscite stagionali il Napoli ha raccolto 21 punti. Un avvio che, se raffrontato con quelli del recente passato, si rivela di fatto il peggiore: 10 punti in meno rispetto al primo anno di gestione Spalletti, 8 in meno dell’annata del tricolore, 3 in meno della stagione 20/21 con Gattuso in panchina e 1 in meno anche del Napoli di Ancelotti. Ciò che deve destare maggior preoccupazione però, è che il ritardo in classifica sia stato accumulato nonostante un calendario piuttosto in discesa: gli unici tre “scontri diretti”, tutti disputati tra le mura amiche contro Lazio, Fiorentina e Milan, hanno fruttato ai Partenopei soltanto 1 punto (agguantato in rimonta grazie a due prodezze di Politano e Raspadori).
In particolare, nelle due sconfitte è emersa chiaramente la maggiore organizzazione tattica degli avversari: una volta imbrigliati i giocatori di maggior talento e inaridite le fonti di gioco degli Azzurri, la manovra offensiva degli uomini di Garcia è stata di fatto annullata. Le idee – poche e confuse – sono venute meno, così come la comunicazione tra i reparti, distanti e completamente scollati. Ed è qui che bisogna ricercare le cause della fragilità difensiva del Napoli: una squadra che ricerca esclusivamente la verticalità e si ritrova troppo spesso spaccata in due, sfilacciata anche per via di un pressing prevalentemente isolato e non organizzato. La squadra ha problemi non trascurabili in fase di non possesso, nei recuperi alti e soprattutto nella difesa degli ultimi 30 metri. Le reti subite fin qui sono già 12, decisamente troppe per una formazione che l’anno scorso vantava la miglior difesa del torneo. Una situazione non imputabile alla sola partenza di Kim – visto anche il buon impatto di Natan – ma che trova riscontro nella difficoltà corale di una squadra non abituata a difendere senza la palla, e che soffre terribilmente quando è costretta a correre all’indietro. Ulteriore tasto dolente, è il rendimento casalingo dei Partenopei, che non trovano la vittoria davanti al proprio pubblico dal 27 settembre e sembrano mentalmente travolti dal calore di Fuorigrotta invece di trarvi ulteriore motivazione: in questa Serie A, mentre lontano dal Maradona gli azzurri viaggiano a 2.33 punti di media (in sei partite), la media tra le mura amiche si abbassa drasticamente a 1.4 (in cinque gare).
Una regressione dimensionale
Premesso che riuscire a ripetersi sia una delle imprese più ardue nel calcio e nello sport in generale, era quanto meno lecito aspettarsi una maggiore continuità con il lavoro straordinario della passata stagione, e soprattutto che lo scudetto non fosse soltanto un punto d’arrivo. La sensazione è che il Napoli sia un gruppo molto unito e ricco di qualità, ma che non venga pungolato a dovere, così come una grande orchestra non è in grado di suonare in armonia senza il coordinamento del suo direttore. Non si tratta di una mancanza di motivazioni, ma di incanalare nella direzione corretta il potenziale e le caratteristiche dei giocatori a disposizione, che si sposano a meraviglia, ma in un contesto propositivo in cui si vince e convince senza speculare. Una squadra costruita per attaccare e mantenere il predominio del gioco non può permettersi di concedere situazioni potenzialmente pericolose ogni qual volta un’azione offensiva si conclude in un nulla di fatto, anche in situazioni favorevoli di punteggio.
L’attuale stile di gioco sembra poi “normalizzare” interpreti fondamentali come Lobotka – non più quel giocatore in grado di ripulire tutti i palloni, impostare e creare superiorità, ora relegato a ruoli più difensivi e di interdizione – e dei laterali Di Lorenzo e Mario Rui, le cui spiccate attitudini offensive non attecchiscono più come un tempo. Ciò che preoccupa è che le prestazioni del Napoli non sembrano seguire un graduale percorso di crescita: quanto di buono si intravede, troppo spesso legato a giocate individuali, è continuamente smentito da carenze già viste a cui non si riesce a mettere una toppa. Nel giro di un mese gli Azzurri affronteranno Atalanta, Real Madrid, Inter e Juventus: incontri che ci diranno di più sulla reale dimensione dei Partenopei e sui loro obiettivi di questa stagione.