In Serie A si dribbla poco
Il dribbling, un’arte in via di estinzione in Italia. Una lacuna che si fa evidente soprattutto nel confronto fuori dai confini e le cui cause sono da ricercare probabilmente all’interno dei nostri settori giovanili
In serie A si dribbla poco. Un’affermazione che forse non sorprende, ma la stagione 22/23 conferma un’ulteriore riduzione nei tentativi e nell’efficacia di questo fondamentale. Se nella stagione 21/22 – nonostante il numero più basso sia nei tentati che nei riusciti – potevamo accontentarci di essere davanti almeno alla Bundes per percentuale di successo tra i top 5 campionati, quest’anno risultiamo ultimi nei tentati, nei completati e anche per efficacia (a pari demerito con la Liga).
Importiamo dribblatori
Analizzando sul nostro tabellone i principali dribblatori del nostro campionato salta subito all’occhio come il numero di italiani sia basso, anche messo in relazione al numero di stranieri presenti in serie A (62,5%, dato transfermarkt). Sono solo cinque gli italiani nella top20 alla voce dribbling tentati (Mazzocchi, Pellegrini, Parisi, Cambiaso, Politano) e alla voce dribbling riusciti (Parisi, Frattesi, Mazzocchi, Cambiaso, Pellegrini). Concentrandoci sulla percentuale di successo – tra chi registra almeno 10 dribbling riusciti – notiamo un primo posto ex aequo tra De Ketelaere e il nostro Frattesi, non a caso un centrocampista dalla caratteristiche verticali peculiari e quasi unico nel panorama nazionale. Insomma, a parte quest’ultima eccezione, possiamo dire che in Serie A non solo si dribbla poco, ma che a farlo sono per lo più gli stranieri.
Non coltiviamo il talento
C’è chi, spesso in maniera colorita e non propriamente lucida, indica nella “tattica” il principale indiziato di un calcio a volte stantio, privo di spunti e di giocate di cui soprattutto generazioni passate hanno potuto godere. Una parola forse utilizzata da troppi in maniera troppo superficiale, spesso confondendo meccanismi rigidi e principi di gioco, spostando l’attenzione da un discorso probabilmente più complesso. Il dribbling, risultato di una commistione in più modi declinata di tecnica, atletismo e intuito, è una delle espressioni più tipiche del talento, inteso come qualità innata, certamente migliorabile ma con delle basi individuali necessarie ed indispensabili. Il talento può essere il dribbling, ma anche un tiro particolarmente secco, la visione di gioco, l’anticipo, la velocità o l’elevazione. E spesso, a meno che non si rientri nel gotha del calcio mondiale, queste doti in giovane età possono essere offuscate da fisiologiche lacune in altri ambiti, che siano tecniche, tattiche, fisiche o mentali. Ecco, forse nella nostra tradizione calcistica, soprattutto a livello giovanile – ma non solo – nel corso degli anni si è persa la capacità di vedere il talento tra i difetti, coltivarlo appianando le lacune. O meglio, forse si è deliberatamente e colpevolmente optato, nell’ottica di una sempre più preponderante logica utilitaristica del “non abbiamo rischiato nulla”, di ricercare e preferire il giocatore affidabile, completo ma senza picchi, più sicuro hic et nunc, rispetto al giocatore magari più scostante e prono all’errore ma con margini di miglioramento, costituiti da qualità innate che il primo non ha e non avrà mai. La miopia nel non riconoscere il talento, l’impazienza di non voler aspettare la crescita nell’errore. Errori metodologici, che non possono non essere ricercati in una classe dirigenziale che spesso premia in maniera miope il risultato non valorizzando il lavoro, che risultano decisivi a lungo termine a livello etico, sportivo ed economico, con difficoltà evidenti del nostro calcio quando varca le porte dell’Europa.